La visita al primo santuario shintoista della mia vacanza è il punto di partenza per il terzo capitolo di Inseguendo i sakura, il mio racconto/diario di viaggio sul Giappone: il santuario di Ikuta, a Kōbe, è uno dei più antichi del Giappone. Eppure, io l’ho trovato per caso. Mi offre il pretesto perfetto per mettermi in modalità Alberto Angela e raccontarvi qualcosa che ho imparato sullo shintoismo e sui suoi santuari.
(Inseguendo i sakura inizia qui; il capitolo precedente si trova qui.)
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INSEGUENDO I SAKURA – III – KŌBE: SANTUARIO SHINTOISTA DI IKUTA
25 marzo – Kōbe
Ridiscesa giù dal Nunobiki Habu-Kōen, tranquilla – come fossi stata cullata dalla bellezza di arbusti e corolle – mi spostai dalla stazione di Shin-Kōbe a quella di Sannomiya e, lì vicino, per caso, trovai un santuario shintoista: il primo della vacanza.
Shintoismo
Per quanto ne sappiamo, lo shintoismo in Giappone esiste da sempre: non si riesce a risalire al momento preciso in cui questa religione politeista e animista iniziò ad affermarsi nel Paese del Sol Levante; senza dubbio, però, essa costituisce le fondamenta non solo delle credenze religiose, ma anche del pensiero filosofico e del comportamento nipponico in generale.
A differenza di altri culti, lo shintoismo non impartisce ai suoi seguaci nessun corpo di dottrine o dogmi, né codici di comportamento o leggi morali; è, piuttosto, un insieme di riti, culti e credenze, la cui caratteristica principale è la convinzione che esistano moltitudini di spiriti divini, chiamati kami, che dimorano attorno a noi: spesso, in elementi naturali comuni, come foreste e montagne; a volte, in luoghi specifici del Giappone, che sono per questo considerati sacri (un esempio su tutti: il monte Fuji).

Come accennavo qualche post fa, nel caso dei luoghi di culto shintoisti si parla di santuari (in giapponese jingū, jinja o taisha); quando si dice templi, invece, ci si riferisce normalmente a quelli buddhisti.
Il santuario che trovai per caso a Sannomiya è, secondo i leggendari annali storici della tradizione giapponese, uno dei più antichi del Giappone. Si tratta del santuario di Ikuta, voluto dall’imperatrice Jingū attorno al 200 d.C. e dedicato alla dea (kami) Wakahirume, sorella della dea del Sole, Amaterasu.
kami
La parola kami vuol dire, letteralmente, “superiore” o “sopra” ed indica, in generale, tutte le divinità vere e proprie, gli spiriti della natura e le presenze sovrannaturali che gli shintoisti venerano, e a cui essi si rivolgono principalmente per assicurarsi il benessere nella vita quotidiana.
Secondo la mitologia classica giapponese, fu una coppia di divinità (o essenze), una femminile e una maschile, a dare alla luce i kami, allorché queste divinità discesero sulla terra per fondare il Giappone.
In quell’occasione, nacquero diversi altri figli, tra cui Amaterasu: tra le divinità più importanti della mitologia giapponese, la dea del Sole è anche antenata del primo mitico imperatore del Giappone, Jimmu.
Ciascun kami può rappresentare un essere mitologico, un animale, uno spirito ancestrale, un concetto o, nella stragrande maggioranza dei casi, un fenomeno o un elemento naturale: il sole, le montagne, l’acqua, gli alberi… Amaterasu stessa, per esempio, è un kami.
rapporto con la natura
La credenza alla base della religione shintoista è che il kami, la divinità, risieda fisicamente in questo o quell’elemento naturale, attorno al quale si svolgono tutti i riti e le celebrazioni.
Ecco perché i Giapponesi attribuiscono una così grande importanza alla natura; per lo stesso motivo, gran parte dei riti religiosi e delle feste ricorrenti (matsuri) sono legati al ruotare delle stagioni e si svolgono in siti ed elementi naturali di rilievo.
Oggi, il santuario di Ikuta è un’oasi colorata di tradizione e spiritualità nel cuore di Sannomiya, un quartiere moderno e molto frequentato di Kōbe: fanno da sfondo costruzioni alte e moderne, e numerosi caffè e ristoranti popolano le vie circostanti.
Tuttavia, non è difficile immaginare Ikuta come era un paio di secoli fa: immerso nel verde, circondato da una foresta – proprio come la maggior parte dei santuari che ho visitato in Giappone.
Il santuario di Ikuta è deputato alla protezione della salute dei fedeli ed è considerato un simbolo di vita e resurrezione, per via di numerosi eventi potenzialmente catastrofici a cui, nel corso dei secoli, è sopravvissuto.
Come ho detto, trovai per caso questo santuario mentre passeggiavo per Kōbe; sono andata a cercare qualche informazione al riguardo solo dopo essere tornata dal viaggio, e nel farlo mi sono sorpresa nel ricordare la precisa sensazione di vitalità e prosperità che il santuario mi aveva trasmesso.
Gli appunti che presi durante il viaggio confermano quella sensazione: “il santuario era bellissimo: fastoso, colorato, sembrava un inno alla vita”. Direi che il messaggio passa, forte e chiaro.
rituali e preghiere
Nel culto shintoista, celebrazioni, offerte, rituali sono messi in atto non tanto per comunicare con la divinità, per chiedere perdono o per altri intenti spirituali o filosofici: si tratta di un approccio molto più “pratico” (anche se non privo di riti codificati). Le preghiere rivolte ai kami hanno come auspicio quello di curare malattie, essere protetti da pericoli, ottenere successo in situazioni particolari, o in generale tutto ciò che ha a che fare col benessere fisico e con la prosperità.
Il fatto che nello shintoismo non ci siano dogmi né implicazioni morali della pratica religiosa non significa che i rituali siano improvvisati. Al contrario: ricorrenze, riti e gesti ben codificati sono parte della vita quotidiana degli shintoisti e hanno un ruolo molto importante nella società giapponese in generale.
Innanzitutto, grande importanza viene attribuita, nella tradizione shintoista, alla purificazione: la detersione del corpo rappresenta, di fatto, un processo spirituale, fondamentale per creare uno stato mentale puro e pronto ad accogliere la benedizione da parte della divinità.
Non a caso, in nessun santuario shintoista manca il chōzuya, il catino per le abluzioni, dotato di acqua e mestoli (hishaku) con cui i fedeli si lavano mani e bocca prima di rivolgere le loro offerte e preghiere ai kami.

Come ho già raccontato qui, l’acqua deve essere dapprima versata sulla mano sinistra, reggendo il mestolo con la destra; poi si passa a detergere la mano destra; dopodiché, si riprende lo hishaku con la mano destra, si versa dell’acqua nella sinistra e da qui la si beve, per purificare la bocca, e poi si lava nuovamente la mano sinistra. Quindi, si pone il mestolo in verticale per far scorrere sul manico l’acqua che purificherà quest’ultimo e, infine, lo si ripone con la concavità rivolta verso il basso.
In alcuni santuari, l’area dedicata alle abluzioni è un sito naturale da cui sgorga acqua corrente: in tal caso si parla di temizuya (da temizu, termine giapponese che identifica il rituale di purificazione – e, secondo me, a sua volta, da mizu, che vuol dire acqua).
Una volta purificato e pronto a rivolgersi al kami, il fedele può dirigersi verso lo honden, ossia l’edificio più importante (non necessariamente il più grande) del santuario, in cui si crede che il kami risieda. Solo i sacerdoti possono entrarvi, in occasione delle cerimonie ufficiali: queste sono le uniche situazioni in cui le porte dello honden vengono aperte.
I fedeli restano al di fuori della recinzione, chiamata tamagaki , e qui si inchinano. Il secondo rituale ha inizio: pongono le loro offerte nel saisen-bako; muovono ripetutamente la corda posta fuori dallo honden e collegata ad un grosso sonaglio (suzu), il cui suono serve a scacciare gli spiriti maligni; si inchinano due volte tenendo le braccia distese lungo il corpo, battono le mani per attirare l’attenzione del kami, gli rivolgono la loro preghiera e, per finire, si inchinano un’ultima volta.


In alcuni casi, lo honden non è affatto presente: quando, per esempio, il santuario sorge su un’area (come una montagna sacra) che si crede abitata nella sua interezza dalla divinità, o quando, in generale, si ritiene che la zona circostante offra già di per sé un contatto diretto con il kami.
Quando lo honden è presente, al suo interno il kami è quasi sempre rappresentato dallo specchio, simbolo considerato sacro nella cultura giapponese, in quanto riflette il contenuto del cuore e della coscienza.
Lo specchio, pertanto, simboleggia saggezza e conoscenza.

Santuari
Altri elementi importanti di un santuario shintoista sono:
– il torii, iconografico portale d’accesso, fatto di legno e dipinto di rosso e/o di nero: rappresenta la divisione tra il territorio sacro del tempio e il mondo fuori;

– il sandō, viale d’accesso al tempio, bordato da lanterne luminose;


– la coppia di komainu, le due statue poste all’entrata del tempio, raffiguranti due animali a metà tra cani e leoni. Quasi sempre, uno ha la bocca aperta e l’altro chiusa. La loro funzione è quella di tenere lontani gli spiriti maligni;

– lo haiden, padiglione accessorio, quasi sempre più grande dello honden e riccamente decorato. Accessibile ai fedeli, è destinato ad ospitare cerimonie e alla preghiera;
– lo shamusho, l’ufficio del tempio: è dedicato alla gestione del santuario e alla vendita dei talismani;
– lo shimenawa, festone di strisce di carta piegate a zig zag e appese a corde che delimitano gli spazi sacri. In Giappone, è frequente trovare degli shimenawa che indicano luoghi sacri all’interno di spazi comuni, anche semplicemente appesi in verticale al di sopra di luoghi dove le persone hanno l’abitudine di lasciare offerte e pregare.
Quanto alle offerte lasciate presso i santuari, le più comuni sono offerte in denaro, ma capita ancora di trovare, all’interno delle aree adibite a santuari, frutti e bevande, così come pezzi di tessuto, offerte più tradizionali che venivano offerte al kami in passato.
Tra i talismani che in gran quantità si possono acquistare presso i santuari (il business sviluppato attorno alle aree sacre, in Giappone, non è indifferente), sono famosi gli omikuji, ovvero fogli di carta rettangolare che predicono la fortuna di coloro che li acquistano: esiste una classificazione che va da daikichi = ottima fortuna fino a kyō = sfortuna totale.
Dopo averli letti, li si può piegare sul lato lungo ed appendere ai rami degli alberi circostanti o agli “stendini” di corda che si trovano in tutti i santuari.
Lo stesso si può fare con i foglietti bianchi che si acquistano per scriverci sopra la propria preghiera ed affidarla al kami, e anche con gli ema, tavolette di legno adibite allo stesso scopo e rappresentanti icone shintoiste varie, come il cane akita.
Di regola, però, la tavoletta dovrebbe raffigurare un cavallo (ema vuol dire letteralmente “immagine di un cavallo”). Wikipedia mi spiega il perché: “Questo nome ha origine dal fatto che in passato i cavalli reali venivano offerti ai templi in cambio di salute e benedizione”. Ancora una volta, si è molto pragmatici.

Il santuario di Ikuta è un compendio dei più comuni simboli e colori del Giappone, l’immagine esatta che avevo nella mia testa quando leggevo Autostop con Buddha: c’era il torii che sfoggiava la sua abbagliante lacca rossa-arancione; c’erano le lanterne; i ciondoli propiziatori in vendita; persino un ciliegio all’entrata.
(Purtroppo, di Ikuta, non ho che un paio di foto scattate da me, ma Internet può soddisfare ogni curiosità)
Trovare l’armonia con noi stessi e con il mondo che ci circonda è la condizione imprescindibile per mettersi in contatto con il divino.
I santuari shintoisti sono luoghi in cui regna un’atmosfera serena e intrisa di solennità. Quasi sempre circondati da foreste o da aree dalla vegetazione lussureggiante, sono sempre luoghi in cui il fedele, oltre al dialogo con la divinità, ricerca la pace e il contatto diretto con la natura – e, in definitiva, con la sua stessa essenza.
Per la religione shintoista (e, dunque, per la cultura giapponese in senso più esteso) non esiste una linea di demarcazione netta tra la natura e l’uomo: egli, alla fine, è considerato parte integrante del tutto e, dunque, della natura stessa.

Comprai uno di quei foglietti su cui scrivere le preghiere. Ne scrissi una a modo mio, lo annodai a una corda insieme alle altre. “Non è vero ma ci credo”…
…non è che ci credessi davvero… è che in momenti come quelli si vorrebbe qualcosa a cui aggrapparsi, qualcuno a cui chiedere il favore di intercedere quando si è così impotenti. Si ha bisogno di fare un gesto, di investire in energia tutto il dolore, anche se si sa che non servirà a nulla.
Mi commossi ancora un po’. Rimasi per un po’ ad osservare il santuario. Più tardi, avrei scritto sul mio diario:
“Quando sei adulto, ti aspetti che la realtà sia sempre un po’ diversa, in meglio o in peggio, rispetto a quello che hai immaginato. Ma quando la realtà è esattamente come te l’eri immaginata, ti sembra sia successa una magia, ti sembra che una tua fantasia abbia preso forma, e ti senti felice, come un bambino alla vigilia di Natale”.